Uno dei luoghi comuni più condivisi da chi ama gli animali afferma che l'uomo è spesso malvagio, pratica la guerra e uccide inutilmente mentre gli animali sono puri e innocenti. Uccidono anch'essi - certo - ma solo prede di specie diverse dalla loro perché Madre Natura ha stabilito un equilibrio in cui ogni specie convive nutrendosi di quelle più deboli.
Bene: che gli animali non facciano la guerra è una favola che quelli che hanno visto troppe volte Bambi si raccontano l'un l'altro tanto spesso da finire per crederci. Se per guerra intendiamo un conflitto con esseri viventi della stessa specie, violento, pianificato e organizzato, con tanto di strategie e alleanze, con la formazione di truppe, l'uccisione e l'imprigionamento dei perdenti, ebbene, anche gli animali fanno la guerra[1].
E perché mai non dovrebbe essere così? E' impensabile che l'aggressività dell'uomo sia nata con l'uomo stesso. La specie homo discende dalla miriadi di specie bellicose che l'hanno preceduta, quindi ha ereditato da loro molte caratteristiche: se fa la guerra è perché la vocazione a combattere gli è arrivata attraverso il codice genetico (ma poi homo l'ha coltivata con cura).
Gli etologi, così come gli storici umani, classificano le guerre che si svolgono all'interno della stessa specie per livello di organizzazione degli aggressori:
1. tutti concordano sul fatto che gli animali più amanti della guerra sono gli insetti sociali, che combattono conflitti a elevatissima organizzazione: mobilitazione collettiva, formazione di eserciti, attribuzione di compiti specifici per gruppi di soldati, esito letale per tutti i nemici e per molti degli attaccanti, eventuale riduzione in schiavitù dei nemici sopravissuti. E' il livello più violento, esteso e sanguinoso delle guerre intraspecie, che gli etologi chiamano guerra tra eserciti;
2. un'organizzazione un po' meno sofisticata, ma sempre molto elevata, perché richiede comunque un certo livello di coordinamento, è quella dei conflitti tra bande che si osserva tra alcune specie di mammiferi. Il caso più studiato è quello degli scimpanzé comuni: questi animali si strutturano in gruppi che aggrediscono dapprima singoli individui e poi intere comunità, secondo una logica di escalation affine a quella che si osserva nel conflitto umano. Vi sono molti esiti letali, anche se solo una parte dei perdenti vengono uccisi (gli altri fuggono). Analoghi conflitti, ma più rari, sono state osservati tra bande di leoni, lupi e cinghiali;
3. un livello di organizzazione nettamente inferiore si osserva in quelli che gli etologici denominano conflitti gerarchici interni, tipici di molte scimmie, dei delfini, degli elefanti africani e in generale di specie dotate di coscienza sociale sviluppata. Sono guerre che si sviluppano allorché un gruppo si frammenta in fazioni, ognuna dei quali lotta per la dominanza (quando i sottogruppi sono più di due sono state osservate forme di alleanza temporanee). Le uccisioni sono rare anche se i contendenti si infliggono ferite (morsi e graffi). Sono eventi molto simili al colpo di stato nei governi umani: un soggetto che ha perso il rango nel gruppo di riferimento (scimpanzé, babbuino, lupo anziano,…) viene spodestato dal leader di un gruppo emergente che ha sviluppato per tempo opportune alleanze;
4. il livello più basso è il cosiddetto conflitto territoriale rapido, che spesso si risolve in duelli tra singoli o risse tra piccoli gruppi. Si tratta di tafferugli spontanei caratteristici di molti pesci e uccelli territoriali (merli, corvi, gazze), di rettili e anche di mammiferi come cervi, alci e canidi. Gli scontri sono fatti più di intimidazioni (atteggiamenti e posture minacciose, urla, vocalizzazioni, etc. secondo la specie) che di violenza diretta.
In relazione agli obiettivi la più notevole similarità con la guerra umana è la conquista del territorio, che significa impadronirsi delle risorse del nemico allo scopo di migliorare la situazione della propria popolazione. Per l'uomo si tratta di carpire risorse energetiche, ambientali, materie prime, accesso a vie di comunicazione etc., per gli animali soprattutto di estendere le fonti di cibo. Per entrambi la causa della guerra è strettamente economica e dettata da un bisogno collettivo.
L'unico obiettivo significativamente differente tra la guerra degli animali e quella degli uomini è la lotta per il monopolio delle femmine, che si configura come guerra di bande organizzate di maschi giovani per la conquista delle femmine o l'occupazione degli habitat femminili. Della banda degli aggressori possono far parte anche le femmine, cui vengono delegati ruoli strategici e di coordinamento (solo in rari casi, come nelle iene, ruoli di attacco diretto). Il bottino di guerra è differente a seconda delle specie: presso gli elefanti marini è un harem che può essere costituito da decine di femmine, per i leoni si tratta di una decina di femmine tutte imparentate (i cui cuccioli saranno uccisi dal vincitore[2]), per le formiche legionarie è costituito da una sola femmina, la regina. La guerra per le femmine è considerata una delle competizioni tra le più violente e sanguinose, con un costo biologico elevatissimo perché i perdenti, anche quando non vengono uccisi, vengono isolati e spesso perdono il diritto alla riproduzione[3].
Esattamente come per le guerre umane, le guerre degli animali possono avere uno strascico, perché è possibile che i perdenti organizzino azioni di vendetta, come osservato presso gli scimpanzé. I corvi, ad esempio, ricordano benissimo - uno per uno - quali sono stati i loro aggressori.
Un'ulteriore similitudine tra le guerre degli umani e quelle degli animali si può osservare sul versante della popolazione aggredita: il comportamento difensivo è sempre orientato alla protezione dei cuccioli e assume modalità diverse in base alla specie. Gli scimpanzé e i suricati attuano una strategia cooperativa e preventiva: le femmine nascondono e spostano i cuccioli lontano dall'area del conflitto. Le femmine degli elefanti africani creano un cordone difensivo intorno ai loro piccoli. Tra i carnivori sociali (leoni, lupi, suricati) e solitari (orsi, foche) le madri si prodigano in combattimenti individuali, ponendosi a guardia della tana, così come tra i rettili e gli anfibi. Tra i pinguini entrambi i genitori possono difendere il piccolo coprendolo con il loro corpo; anche tra i volatili monogami (oche e cigni) la difesa è affidata a entrambi i genitori.
Praticamente tutti i genitori sono disposti a combattere ed eventualmente sacrificare la loro vita per i piccoli, ma vi sono specie dove il sacrificio è preventivo, volontario e di gruppo: in caso di attacco nemico alcune specie di formiche (come la Formica rufa, comune anche in Italia) sigillano immediatamente il nido con i loro corpi, alcune termiti esplodono[4] troncando la loro vita insieme a quella degli attaccanti. E non sono gli unici casi.
Ovviamente la specie homo, l'unica che ha sviluppato un sistema di credenze, è riuscita a trovare un'altra ottima ragione per litigare con i suoi simili: le differenze ideologiche, religiose, di pensiero. Sono diversità basate su narrazioni, su presunti valori etici, spesso su semplici simboli: ma dietro questa chincaglieria culturale si nascondono sempre motivazioni economiche non dissimili da quelle alla base dei conflitti sociali tra gli animali[5].
Questo inganno ha trovato la sua teorizzazione fin dall'antichità del pensiero occidentale: tanto Eraclito quanto Platone attribuiscono alla guerra un ruolo morale di difesa e conservazione dei valori morali. Non possiamo ignorare un rischio: gli animali lottano e si uccidono tra loro, ma - così come i popoli umani dell'antichità - combattono con le armi di cui la Natura ha dotato il loro corpo, armi potentissime contro i loro simili la cui intrinseca debolezza protegge la specie nel suo insieme: nessuna guerra sociale porterà mai all'estinzione gli scimpanzé o i suricati o le formiche. Gli uomini sono gli unici che combattono con armi appositamente inventate e costruite, e queste diventano ogni giorno più potenti[6].
In definitiva ciò che appare sempre più evidente e incontestabile è che gli animali condividono con gli umani virtù e debolezze, incluso il ricorso alla violenza per risolvere i conflitti. Certo, scoprire questa piccola verità della Natura può appannare un po' l'immagine di innocenza dei nostri fratelli che dividono con noi le vicende di un piccolo pianeta marginale, ma il fatto di essere così simili, nel bene e nel male, dovrebbe farceli amare e rispettare ancora di più.
[1] sia ben chiaro: in tutto questo calendario non parliamo di combattimenti individuali per il mantenimento o l'accesso al livello alfa né degli scontri individuali per la contesa del partner, che sono fenomeni comuni a molte specie e solo raramente comportano l'uccisione dell'avversario. Parleremo solo di guerre civili, veri e propri conflitti in cui una collettività si mobilita contro un'altra della stessa specie
[2] il caso del leone è più noto, ma l'infanticidio è assai diffuso in natura e risponde alla necessità di stimolare l'estro nelle femmine e quindi sostituire i cuccioli di altri padri con i figli del vincitore
[3] la guerra per le femmine è una ragione di conflitto che sembra ormai superata nella specie homo (testimonianze contemporanee provengono solo da tribù della Nuova Guinea e del Borneo e da conflitti per questioni di dote presso gli aborigeni australiani). Ma si presume che la guerra per le donne fosse molto diffusa nelle società di cacciatori-raccoglitori: secondo alcuni archeologi la fossa comune del sito neolitico di Talheim, in Germania, potrebbe contenere i resti ossei delle vittime di una guerra per le femmine. In tempi storici si annoverano conflitti per le donne tra popolazioni seminomadi medio orientali e africane, per le quali le donne sono considerate parte del bottino di guerra.
La memoria di una guerra per le donne ci perviene dal celebre ratto delle Sabine, attuato dai romani sulle donne della città sabina di Cures verso il 750 a.C.. Se è certo che la Roma dell'epoca del re Romolo scarseggiasse di donne, il rapimento resta avvolto dalla leggenda, benché sia ampiamente citato da Tito Livio e Plutarco e ricordato dal conio di una moneta del 90 a.C.. Furono rapite solo donne non maritate (in numero che oscilla da 30 a 800 secondo le varie fonti, tutte molto successive al fatto). Ma è certo è che in quel periodo Roma affrontò alcune guerre locali, forse scaturite dal rapimento
[4] studi recenti hanno verificato che le termiti Neocapritermes taracua accumulano un enzima depositato in una tasca sull'addome. In caso di pericolo si mordono la tasca: il contatto tra l'enzima e la saliva genera l'emissione esplosiva di una sostanza tossica per le attaccanti che uccide l'animale che l'ha provocata. Interessante notare che il processo di accumulazione dell'enzima dura tutta la vita, sicché sono gli esemplari più vecchi che possono innescare le esplosioni più dannose, quindi il sacrificio è limitato a individui anziani che non sarebbero più efficienti nella gestione del termitaio. E.O. Wilson, fondatore della sociobiologia, commenta che mentre gli uomini mandano in guerra i loro giovani, gli insetti inviano a combattere le vecchie signore
[5] qualche esempio. Sotto il dominio islamico i cristiani in Terra Santa godevano di sufficiente libertà religiosa (non solo: i pellegrini europei che si recavano a visitare il Santo Sepolcro erano benvenuti). Tuttavia nel 1096 papa Urbano II, d'accordo con i nobili europei che volevano dare un futuro da valoroso cavaliere ai figli secondogeniti (esclusi dall'eredità), bandì la prima Crociata con l'obiettivo ufficiale di liberare Gerusalemme e quello reale di controllare le coste del medio oriente e le rotte commerciali verso l'Asia: quale luogo migliore delle coste palestinesi per imporre tasse ai mercanti di passaggio?
In realtà tutte le Crociate (XI-XIII sec.) furono sostanzialmente guerre per accaparrarsi risorse e territori del Mediterraneo orientale mascherate da guerre religiose. Analoga motivazione religiosa (portare il Cristianesimo ai popoli primitivi) è alla base della conquista coloniale dell'America Latina (XVI-XVIII sec.). La colonizzazione dell'Africa (XIX-XX sec.) è avvenuta sotto l'imperativo della "missione di civiltà". Gli Stati Uniti non si preoccupavano neppure di salvare la faccia durante lo spostamento verso ovest dei confini: rompevano i trattati e deportavano i nativi nelle riserve.
Ciò che è stato vero nel passato è vero anche oggi: il conflitto tra NATO e Russia ha come mascheratura culturale (ovvero ragione ufficiale) la difesa delle cosiddette istituzioni democratiche dell'Occidente, che vengono ritenute in qualche modo "migliori" di quelle russe, ma l'imperante russofobia nasconde (a stento) la volontà di appropriarsi delle immense ricchezze energetiche e di materie prima della Russia. Il genocidio di Gaza avviene sotto l'emblema della difesa della sicurezza e della religione di un popolo ma il suo obiettivo di espansione territoriale in direzione del Grande Israele è ormai evidente a tutti
[6] a questo proposito si pensa sempre un conflitto nucleare generalizzato che potrebbe avvenire in un futuro indeterminato, ma questa minaccia - il cui verificarsi resta piuttosto improbabile - serve alle élites a mettere in ombra i danni ambientali certi e documentati delle guerre in corso. Dal 2001 l'ONU ha istituito la "Giornata internazionale per la prevenzione dello sfruttamento dell'ambiente durante la guerra e i conflitti armati", che cade il 6 novembre (tutto il materiale relativo all'iniziative e alle sue ragioni è facilmente rinvenibile in Internet)